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Olmez ed Altri c. Turchia

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Il ricorso all'uso della forza da parte di uno Stato deve risultare "assolutamente necessario" e proporzionale; nell'interpretazione dell'articolo 2, la Corte ha sottolineato che l'impiego del termine "assolutamente necessario" vuol dire che agli Stati non viene riconosciuto alcun margine di apprezzamento sulla valutazione dell'ammissibilità o meno dell'uccisione di un individuo ai sensi dell'art. 2 § 2; l’applicazione dell'art. 2 della CEDU all'interno di uno Stato contraente la Convenzione rappresenta un’obbligazione positiva a carico di quest'ultimo, che si concretizza nell'assicurare un livello minimo di protezione dai rischi reali ed immediati per la vita dei singoli individui, che entrano in gioco al momento del compimento delle operazioni militari da parte delle forze dell’ordine.

 

Fatto:

I ricorrenti, Remziye Olmez, Resul Olmez e Mevlut Olmez, sono tre cittadini turchi nati rispettivamente nel 1967, 1972 e 1973, e residenti ad Andaç (dipartimento di Sirnak, Turchia). Essi sono rispettivamente la moglie, il fratello e il nipote del sig. Haci Olmez, nato nel 1966 ed assassinato l’8 aprile 2003 dalla gendarmeria turca di Andaç. Il villaggio di Andaç è situato in prossimità della frontiera irachena nel sud-est della Turchia e le terre intorno ad Andaç servono da pascolo per gli abitanti del villaggio. Questa regione si trova sotto la sorveglianza stretta delle forze della gendarmeria del posto, che dispone di una base militare occupata da soldati turchi al fine  di prevenire l’intrusione in territorio turco di terroristi iracheni ed il contrabbando internazionale, molto frequente in questa parte della Turchia a causa della guerra in Iraq.Il sig. Haci viveva ad Andaç, e nel passato uno dei suoi fratelli si era associato al PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e un altro era stato condotto dinanzi alla Corte di Sicurezza di Diyarbakir per collaborazione con il PKK, considerata un'organizzazione terroristica. Nel 1995, il sig. Haci sospettato di sostenere la stessa organizzazione dei fratelli, viene licenziato dal suo posto di lavoro come guardiano del villaggio, ed inizia a lavorare come pastore. Prima della sua uccisione, Haci viene ripetutamente minacciato dalle autorità militari locali che vedono in lui un simpatizzante del PKK. Qualche anno più tardi, e precisamente l’8 aprile 2003, Haci e il fratello Mevlut, mentre conducevano il bestiame al pascolo sulle montagne a 500 m da Andaç, finiscono nel mirino dei gendarmi turchi, nascosti sulle montagne, che li credono contrabbandieri iracheni.  Questi ultimi aprono il fuoco contro di loro ed Haci rimane ucciso mentre Mevlut rimane ferito.  Inizia un'azione penale contro i gendarmi turchi per l'omicidio volontario del sig. Haci dapprima dinanzi al tribunale poi dinanzi alla Corte d’assisi di Sirnak. Le autorità militari si difendono dichiarando da un lato, di aver obbedito ad un ordine legittimo e, dall’altro, che le vittime non erano facilmente identificabili, a causa del buio e della distanza.
A questo punto è opportuno fare una breve premessa sul diritto nazionale turco afferente l’organizzazione e le attribuzioni delle forze dell'ordine. La legge n. 2803 del 1983, prevede che i militari possano prendere tutte le misure necessarie alla salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, ed anche alla prevenzione del contrabbando.Per quanto attiene la persecuzione e la prevenzione degli atti di contrabbando in Turchia si sono succedute due leggi, la n. 1918 e la n. 4926, che prevedono, per la polizia locale, la possibilità di aprire il fuoco contro un individuo, nel caso in cui non basti l’avvertimento verbale che ingiunga allo stesso di fermarsi, senza prima prevedere la possibilità di sparare colpi in aria o colpi al fine di ferire l'avversario. Tali leggi non solo sono molto vaghe e non circoscrivono precisamente le circostanze in cui sia considerato legittimo l’impiego della forza da parte dei militari, ma sono considerate anche non rispettose dei limiti all'uso legittimo della forza. Esse vengono abolite con l’adozione della legge n 5607 del 2007, in cui vengono stabilite le condizioni del ricorso alle armi, in maniera molto più rigorosa e restrittiva, in particolare il suo art. 22 impone, nelle zone trasnfrontaliere,  dapprima di dare l’ordine di arrendersi, poi di sparare dei colpi in aria ed infine, in caso di risposta al fuoco o di legittima difesa, di puntare il fuoco sul soggetto, non allo scopo di ucciderlo ma soltanto di ferirlo.
Tornando al caso di specie, gli odierni ricorrenti, dopo aver ricevuto il rigetto della loro azione anche da parte della Corte d’Assise, propongono ricorso dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione, per violazione dell’art. 2 della Convenzione, basandosi su tre assunti: - avuto riguardo alle condizioni fisiche e al luogo del crimine era improbabile che i militari non avessero riconosciuto Haci e Mevlut;- l’eventuale legame tra la morte di Haci e le minacce dei militari contro di lui non erano state esaminate;- non era stata tenuta in debita considerazione la conclusione della commissione parlamentare in base alla quale vi era stato un ricorso ingiustificato ed eccessivo all’uso della forza.Su tali assunti i ricorrenti  presentano  ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo il  10 giugno 2003Il Governo si difende, dichiarando in primo luogo che vi sono fondate ragioni di credere che Haci e Mevlut siano dei contrabbandieri, e in secondo luogo che prima di adire la Corte di Strasburgo non sono state esperite tutte le vie di ricorso interno, dato che il processo penale dinanzi alla Corte di Cassazione era ancora pendente.

Diritto:

La Corte si pronuncia attraverso un percorso logico che parte dall'analisi del caso di specie ed arriva all’elaborazione di un principio più generale con riguardo alle leggi turche sulla lotta al contrabbando internazionale. Dapprima essa ritiene che nulla nella ricostruzione dei fatti da parte delle autorità militari turche possa far ritenere che queste ultime avessero agito nella sincera convinzione di trovarsi di fronte a dei contrabbandieri, in particolare, la situazione topografica del terreno, la distanza visiva dai due pastori, l’inesistenza di prove che potessero far credere alle autorità che i due fossero contrabbandieri, e soprattutto le continue minacce da parte delle autorità ad Haci, sospetto di appartenere al PKK. Tuttavia, la Corte afferma che, anche accettando la ricostruzione fatta dal Governo turco e considerando legittimo l’uso della forza da parte delle autorità, in quanto fondato su “una convinzione onesta e valida” al momento dei fatti, non potrebbe prescindere dalla valutazione della concreta conformità della legislazione nazionale turca all’art. 2 par. 1 e 2 della CEDU.Nel caso di specie infatti, ciò che va valutato è la conformità o meno della legge turca n. 1918 (lotta al contrabbando internazionale), in vigore all'epoca dei fatti, con l’articolo 2 della Convenzione, in quanto tale legge permetterebbe ai militari turchi di aprire immediatamente il fuoco sugli individui, nel caso in cui essi non ottemperino all’ordine di fermarsi, non rispettando in tal modo né il principio di proporzionalità dell'uso della forza, né quello di necessità dell'uso della forza. 

A questo punto è necessaria una breve premessa giuridica sull'articolo 2 della CEDU.  Il diritto alla vita infatti, appartiene al c.d. nocciolo duro della Convenzione; ciò significa che gli Stati membri, per effetto della riserva contenuta nell’art. 15, 2° comma, sono sempre e comunque tenuti all’interno del proprio territorio a garantire il godimento di tale diritto. Il primo paragrafo dell’articolo difatti, precisa che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”. Il diritto alla vita tuttavia non è assoluto, il par. 2 dell’art. 2 prevede alcune circostanze nelle quali la morte non è considerata inflitta in violazione del diritto alla vita. In particolare, è consentito l’utilizzo della forza da parte dello Stato e dei suoi organi, anche quando questo abbia esiti fatali, qualora tale utilizzo sia necessario per assicurare la difesa di qualsiasi persona dalla violenza illegale, per eseguire un arresto legale o per impedire l’evasione di una persona legalmente detenuta, ed infine per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione.Sull’interpretazione di tale disposizione, ha già avuto occasione di pronunciarsi la Corte di Strasburgo nel caso "Mc Cann e altri c. Regno Unito", ove, per la prima volta, ha riconosciuto la violazione diretta dell’articolo 2. Il caso Mc Cann costituisce, a ben vedere, il "leading case" in materia di interpretazione dell’art. 2, giacché in tale occasione la Corte ha esposto, in materia di legittimità dell’uso della forza, principi interpretativi a cui si è ispirata la successiva giurisprudenza ed utili anche alla soluzione del nostro caso di specie. Così in particolare, la Corte ha precisato che:1) L’art. 2 par 2 non definisce le situazioni in cui può essere inflitta intenzionalmente la morte, ma descrive i casi in cui è possibile il ricorso alla forza, che può condurre a causare la morte in maniera involontaria.2) L’elencazione delle finalità per le quali l’utilizzo della forza può essere considerato legittimo deve essere interpretata, vista l’importanza primaria del diritto alla vita, in maniera restrittiva.3) Il ricorso alla forza deve risultare “assolutamente necessario” e proporzionale; la Corte ha sottolineato che l'impiego del termine "assolutamente necessario" vuol dire che nell'interpretazione dell'articolo 2 la Corte non riconosce agli Stati alcun margine di apprezzamento, riservando quindi a sé di decidere se l'uccisione possa essere giustificata ai sensi dell'art. 2 § 2.4) Ogni stato membro è tenuto non solo a vietare l’arbitrario utilizzo della forza che causi la morte, ma ha altresì l’obbligo di garantire l’effettività di tale divieto. A tale riguardo è dunque, necessario che ogni Stato membro preveda al proprio interno un controllo effettivo per valutare la legalità del ricorso alla forza ad opera dei propri organi; è, quindi, possibile che la Corte riconosca la violazione dell’art. 2 qualora le Autorità dello stato membro non effettuino un’indagine idonea al fine di valutare la legittimità dell’uso della forza nel caso concreto.
Valutando il caso di specie sulla base delle interpretazioni dell'art. 2 sopra esposte, è evidente che la legge n. 1918 sulla lotta contro il contrabbando internazionale non può considerarsi conforme all’art. 2 CEDU, in quanto è molto vaga con riguardo alla descrizione dei limiti all’uso della forza da parte delle forze dell'ordine, e non rispetta i principi di necessità e proporzionalità nell'impiego di quest'ultima. Pertanto essa non tutela adeguatamente la vita dell’individuo, in quanto non gli assicura il livello di protezione richiesto dall'art. 2 CEDU.   L’applicazione dell'art. 2 della CEDU infatti, rappresenta un’obbligazione positiva a carico dello Stato contraente la Convenzione, che si concretizza nell'assicurare un livello minimo di protezione dai rischi reali ed immediati per la vita dei singoli individui, che entrano in gioco al momento del compimento delle operazioni militari da parte delle forze dell’ordine.Tale livello di protezione, secondo la Corte di Strasburgo non viene assicurato dalla legge turca n. 1918 sulla lotta al contrabbando internazionale. Verrà assicurato, in parte con le successive leggi turche del 2003 e del 2007, non ancora in vigore però, all'epoca dei fatti. Questa semplice constatazione, denota secondo la Corte, la violazione dell’art. 2 della CEDU.Il fatto invece, che la procedura interna sia ancora pendente, per la Corte, è un motivo irrilevante, considerato che la giurisdizione nazionale dovrà comunque dichiarare l’incompatibilità della legge 1918 con l’art. 2 della CEDU.

Equa soddisfazione:

La Turchia dovrà versare ai ricorrenti la somma di 100.000 Euro per i danni morali e materiali, e la somma di 3.000 Euro per le spese legali. Rigetta la richiesta di equa soddisfazione per il surplus.


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