Gli obblighi procedurali imposti dall'Art. 2 della Convenzione impongono, inter alia, che ai parenti delle vittime sia consentito di accedere agli atti di indagine prodotti nel processo, al fine di poter tutelare adeguatamente le loro ragioni.
Il caso trae origine da un ricorso (n. 310/04) instaurato contro la Repubblica Bulgara da tre cittadini ivi residenti, la Signora Kyani Ismailova Seidova, Nadzhie Seidova e Zyumbyula Seidova.
Il 29 Giugno 2001, Selyahtin Hasanov insieme ad altri quindici uomini, tutti di origini rom, si recarono in un campo coltivato allo scopo di appropriarsi degli ortaggi; la banda venne sorpresa da due guardie del campo, ed a seguito del confronto che ne derivò, Selyahtin Hasanov venne ucciso da un colpo di arma da fuoco. Al termine dell'inchiesta sulla morte, venne instaurato un procedimento penale nei confronti di una delle due guardie. Nel corso delle indagini, infatti, emerse che le guardie, avvicinandosi al gruppo, avrebbero pronunciato nei confronti della banda ingiurie e minacce -nello specifico "zingari"..."ti ammazzo"; nella concitata collutazione che seguì agli insulti, una delle guardie fece fuoco sulla vittima.
Il 4 febbraio 2002, sulla base dei riscontri probatori, il pubblico ministero, sostenne la tesi della legittima difesa, asserendo che l'indagato fosse stato aggredito fisicamente dalla banda in piena notte ed a breve distanza. Questa circostanza, dato il gran numero di attaccanti, la loro giovane età e forza fisica, il tempo e l'intensità dell' attacco, non avrebbe dato alla guardia altra possibilità se non quella di respingere gli aggressori con le armi. Dalle indagini risultò inoltre che: a) la guardia sparò due volte in aria non riuscendo a scoraggiare gli aggressori; b) le indagini balistiche, confermarono la presenza di particelle di metallo e polvere da sparo sul volto di Selyahtin Hasanov; c) lo psicologo, sostenne che il comportamento dell'imputato al momento dell'attacco, fosse dominato dal suo istinto di auto-difesa.
La tesi della legittima difesa venne accolta e, di conseguenza, venne dichiarato il non luogo a procedere; in sede d'impugnazione il Tribunale regionale confermò la decisione, in particolare sostenendo che la risposta della guardia non fosse stata sproporzionata all’attacco subito.
Gli odierni ricorrenti contestarono la decisione della Corte Regionale dinanzi alla Corte di Appello di Burgas, reiterando le proprie argomentazioni: in particolare insistettero sul fatto che il loro diritto di partecipare al processo, in qualità di parenti della vittima, non dovesse limitarsi alla mera facoltà di contestare le ordinanze del procuratore, ma che dovesse estendersi alla possibilità di accedere agli atti d'inchiesta e di proporre richieste istruttorie, poteri questi, che gli furono preclusi in ogni fase del procedimento. In tale stato di cose, non avendo potuto prendere conoscenza delle prove raccolte, non furono in grado di contestare in modo efficace gli atti del procuratore e del tribunale, nè poterono adeguatamente motivare la necessità di ulteriori misure istruttorie.
Il 23 luglio 2002, la Corte d'Appello respinse il ricorso confermando la decisione del tribunale di grado inferiore circa la legittima difesa. Riguardo il diritto dei ricorrenti alla partecipazione attiva al processo, il tribunale ritenne che esso fosse precluso dalla mancanza di una imputazione formale a carico dell’indagato. Inoltre, gli interessi dei parenti delle vittime erano stati adeguatamente protetti, potendo loro contestare le azioni del procuratore dinanzi al tribunale.La decisione d’appello venne cassata con rinvio il 23 aprile 2003, motivando che in prima istanza si sarebbe dovuto esaminare il ricorso dei richiedenti in pubblica udienza. Il 4 luglio 2003, il giudice del rinvio confermò le decisioni precedenti, senza peraltro rispettare la statuizione della Corte di Cassazione riguardo la pubblica udienza . A seguito delle modifiche del codice di procedura penale intercorse medio tempore, quest’ultima decisione divenne non impugnabile e pertanto definitiva della vicenda.
I ricorrenti lamentano che le autorità statali bulgare non hanno condotto un'indagine approfondita ed efficace sulla morte del loro marito e padre, Selyahtin Hasanov, rappresentando questa una violazione dell’obbligo procedurale ex art. 2 CEDU.
In combinato disposto con l'articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti denunciano infine la violazione dell'art. 14, asserendo che le autorità statali siano venute meno al loro obbligo di indagare sulla possibile esistenza di un movente razzista per l'omicidio, e che l’inefficacia dell’indagine dipendesse da un comportamento discriminatorio basato su pregiudizi razziali nei confronti delle minoranze rom.
In applicazione dell'art. 41 CEDU, i ricorrenti chiedono € 30.000 a titolo di risarcimento per danni materiali.
La Corte, preliminarmente, ricorda che la tutela del diritto alla vita comporta implicitamente, a carico di ciascun Stato, l’obbligo di realizzare un documento d’inchiesta ufficiale ed efficace, ogni volta che l'uso della forza porti alla morte di un uomo.
L’articolo 2 prevede, altresì, il dovere di garantire il diritto alla vita tramite una legislazione penale concretamente tesa a scoraggiare la commissione di reati contro la persona, corredata da un meccanismi preventivi, repressivi e punitivi.
Le indagini, in caso di uso della forza da parte dello Stato, devono poter stabilire la causa delle lesioni, individuare e punire i responsabili, obbligo, questo, di mezzi e non di risultato. Si richiede inoltre che le autorità, per assicurare elementi probatori sui fatti in questione, adottino tutte le misure più opportune, comprese, tra l'altro, testimonianze oculari ed autopsia.
E' essenziale infine che le indagini siano condotte tempestivamente, specie se in caso di situazione controversa, dato che il passare del tempo, inevitabilmente, impoverirebbe la quantità qualità delle prove e perpetuerebbe, dolorosamente, il calvario della famiglia del defunto.
I parenti della vittima dovevano essere coinvolti nel procedimento, nella misura necessaria per poter proteggere i loro legittimi interessi.
La Corte riscontra che tale diritto venne negato ai ricorrenti sulla base di una circostanza meramente procedurale, ovvero la mancata “imputazione formale” della guardia responsabile della morte di SH.
Valutati i fatti suesposti, la Corte ritiene che le indagini non siano state sufficientemente approfondite ed obiettive, e che i ricorrenti siano stati privati di qualsiasi possibilità di partecipare attivamente all’accertamento dei fatti nel corso dell’indagine preliminare. Per questi motivi, ritiene che l'inchiesta non abbia soddisfatto tutti i requisiti procedurali di cui all'articolo 2 della Convenzione.
Più specificatamente, la Corte sostiene che, data la rilevanza dei riscontri testimoniali in relazione all'applicazione dell'istituto della legittima difesa, l'accesso agli atti sia indispensabile per il rispetto degli interessi dei familiari di una vittima, defunta in siffatta circostanza.
Articolo 14 – Divieto di discriminazione
Appellandosi all'articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 2 della Convenzione, i ricorrenti lamentano che l’inefficacia delle indagini sia conseguenza di un comportamento discriminatorio, messo in atto dalle autorità pubbliche nei loro confronti, in quanto appartenente alla minoranza Rom del paese.
La Corte tuttavia rileva che i ricorrenti non abbiano dimostrato le loro affermazioni, non avendo fornito prove oggettive circa l'esistenza di eventuali pregiudizi a loro discapito.
Per questi motivi, la Corte dichiara questa doglianza manifestamente infondata.
Equa soddisfazione:
La Corte ritiene che i ricorrenti hanno subito un pregiudizio morale a causa del carattere ineffettivo dell'inchiesta condotta sulle circostanze della morte. Deliberando in equità, così come imposto dall'articolo 41 della Convenzione, la Corte stima ragionevole la somma di € 12000 a titolo di pregiudizio morale.